lunedì 8 marzo 2010

Lettera ad un ragazzo neo assunto

Caro ragazzo,



domani firmerai finalmente il tuo primo contratto a tempo indeterminato, e dopo mesi di precariato e lavori cambiati senza aver acquisito alcuna professionalità, sarà certamente un momento importante.


Potrai finalmente cominciare a progettare il tuo futuro, a cercare casa e banche per i prestiti, a costruirti una famiglia con dei figli perché ora hai finalmente un lavoro sicuro. Avrai un capo che crederà in te, ti permetterà di crescere e condividerà con te la gioia dei tuoi successi e i momenti bui delle sue delusioni guidandoti attraverso la foresta che è il mondo del lavoro. Ti farà piani di carriera, parteciperai a corsi che accresceranno le tue competenze e un domani, chissà, potrai prendere il suo posto. Dovrai solo firmare una piccola clausola nel contratto che ti dirà di rimetterti all’insindacabile giudizio di un arbitro in caso di qualche problemino, ma non ti spaventare: l’arbitro sceglierà, nel caso mai dovesse capitare, secondo una giusta equità soggettiva senza ricorrere a leggi e leggine sempre così difficili da capire. E tu firmerai, perché in fondo non ti costerà nulla e perché avrai piena fiducia nel tuo capo, nel suo sorriso, nella sua determinazione. Qualche malintenzionato ti racconterà che quella norma modifica radicalmente un certo Articolo 18, una cosa desueta del 1970 che si chiama Statuto dei Lavoratori, uno di quei complicati intrecci di regole che, a quarant’anni di distanza, non ha più senso di esistere perché creato da persone che hanno lottato per ottenere dei diritti che, ai giorni nostri, non hanno più valore. In fondo, è un baratto normale nel mondo del lavoro: tu fili dritto, fai quello che ti dicono di fare senza alzare la testa, non urti la suscettibilità di colleghi e superiori che potrebbero con una sola parola distruggere la tua reputazione e credibilità, e non avrai problemi di sorta a meno che… a meno che tu non decida che la tua dignità non ha prezzo e che la vita non debba essere sempre e solo un compromesso in cui piegare la testa e dire “Signorsì”.

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