lunedì 26 aprile 2010

In ricordo di Andrea Fortunato

Era il 25 aprile di quindici anni fa, se mi ricordo bene. Sintonizzato sull’ennesima puntata dell’Appello del Martedì, attendevo di scoprire le ultime novità sulla nostra Beneamata quando quella didascalia, quella scritta in giallo gelarono il mio sangue. Feci finta di non capire, semplicemente mi rifiutavo di crederci, ma i fatti erano lì, drammaticamente pronti a confermare quelle mie paure.

Che dolore provai, caro Andrea, nel vedere quei capelli sciolti al vento muoversi lungo quella fascia sinistra e nel cuore, nella mente, capire che tutto quello non sarebbe più stato. Ho pianto pensando che non eri riuscito a vincere quella tremenda battaglia, l’unica vera che conta in questa maledetta vita, e che ancora una volta un destino bastardo e crudele aveva strappato al mondo un ragazzo di ventiquattro anni. Ventiquattro anni, Andrea, l’età in cui si comincia ad essere uomini, quando le prime responsabilità ti cascano addosso e tu, forse, non hai ancora la lucidità per affrontarle; ma anche ventiquattro anni per guardare avanti con lo sguardo fiero di chi non ha paura del futuro, di chi lo vuole aggredire per urlare a tutti “Si, ci sono anch’io”. Non hai avuto tempo di fare tutto questo. Non l’hanno concesso a te che nel cognome nascondevi la beffa della vita, una vita sempre più difficile, ansiosa, che se di tanto in tanto ti concede delle pause è solo per sputarti in faccia il suo dolore con maggior forza. Proprio ora, davanti ai miei occhi, sono tornate le immagini del tuo breve ma intenso successo: quella maglia del Como che ti lanciò tra i grandi, Il Bari, il Genoa glorioso che da lì a poco sarebbe decaduto, e poi il sogno realizzato, la speranza che diventa realtà, quella maglia così agognata da orde di ragazzini: la numero 3 della Juventus. E poi l’italico Azzurro, apice di una carriera sportiva; l’apice si, proprio prima del drammatico oblio. Quella malattia nascosta che giorno dopo giorno ti rodeva un pezzetto di vita: e tu lottavi, lottavi senza sapere, lottavi anche contro chi ti accusava di scarso impegno scagliandoti addosso, in nome del tifo, quelle uova che ebbero a ferire l’orgoglio di un campione già mortalmente ferito. Mio Dio Andrea, quant’è dura la vita. O forse no, perchè col tuo indomito coraggio, che di lì a poco avrei ritrovato nei miei genitori, mi hai mostrato che è giusto andare sino in fondo, lottare sino allo stremo delle forze perchè nulla è più bello che spalancare gli occhi al nuovo giorno. Sono passati quindici anni Andrea, e dall’alto avrai certo visto la pochezza di quel mondo per il quale correvi e per il quale smaniavo e soffrivo. Un mondo che ti ha cancellato troppo in fretta, forse più per la paura di gettare ombre malinconiche ed inquietanti su quella giostra di speranze e di illusioni che per freddezza e distacco; ma io, oggi, voglio ricordarmi di un sorriso velatamente malinconico, di capelli al vento lungo quell’amata fascia, di un indimenticabile uomo: ciao Andrea Fortunato.

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